Ma è davvero una transizione ecologica?

Stavo leggendo questo interessante articolo di Enrico Mariutti che capita proprio nel momento in cui stavo, con alcuni amici e colleghi, facendo un ragionamento su come stia diventando mainstream parlare di sostenibilità e transizione ecologica, spesso fermandosi solo alla enunciazione del principio senza entrare nel merito.

Il termine transizione ecologica racchiude nel nome stesso due concetti che dovrebbero essere il cardine di tutto il processo. Se sul termine Transizione, intesa come passaggio da un modo di essere o di vita a un altro, da una condizione o situazione a una nuova e diversa (definizione vocabolario Treccani) c’è poco da eccepire perché effettivamente di un passaggio si tratta, sul termine Ecologica qualche dubbio lo nutro.

L’aggettivo Ecologica deriva, infatti, da Ecologia che nella sua definizione autentica di colui che coniò tale termine significa “l’insieme di conoscenze che riguardano l’economia della natura; l’indagine del complesso delle relazioni di un animale con il suo contesto sia inorganico sia organico, comprendente soprattutto le sue relazioni positive e negative con gli animali e le piante con cui viene direttamente o indirettamente a contatto” ed è quindi un qualcosa in più del mero impatto sull’ambiente derivato dalle attività dell’animale uomo (per approfondimenti sull’equivoco tra l’ecologia intesa come scienza e l’ecologia come sinonimo di ambientalismo derivato dai movimenti della seconda metà del secolo scorso, rimando alla pagina di Wikipedia)

L’articolo citato, che invito a leggere con attenzione, mostra in maniera inequivocabile il costo economico e, tra le righe anche quello ambientale, della crescita spinta della transizione ecologica. Risorse alla base della produzione di moduli fotovoltaici, pale eoliche e affini che, non solo non rinnovabili, ma sono a che in diminuzione e foriere di impatti elevati (sociali ed ambientali) per la loro produzione e trasporto.

Quello su ci si stava ragionando nei discorsi citati in premessa era proprio la mancanza di una strategia globale di trasformazione. L’articolo su questo punto è chiarissimo: “Nessuno si è premurato di includere nei modelli gli effetti economici, sociali e politici – a breve, a medio e a lungo termine – delle decisioni che prendiamo oggi.

Abbiamo gli skyline delle colline e delle pianure puntellati di pale eoliche, corsi d’acqua intubati verso centrali idroelettriche, distese di campi trasformati in fotovoltaico … ma siamo così sicuri di avere l’infrastruttura adeguata per la diffusione dell’energia prodotta? Siamo in grado di assorbire e gestire i picchi e accumulare in maniera concreta l’energia prodotta di giorno per usarla la notte o comunque dove e quando serve?

Nel PNRR si da molto risalto all’idrogeno e al biometano, due vettori energetici in grado di “immagazzinare” energia restituendola dove serve … ma l’efficienza di questi sistemi è ancora bassa e l’impatto derivato dalla produzione e dall’utilizzo non è certo nullo.

Inoltre, quando finiranno gli incentivi che tengono in piedi il mercato cosa succederà? Quando dovremo iniziare a dismettere per usura o riparare questi impianti che impatti ci saranno? È stata fatta una analisi del ciclo vita, non del prodotto, ma dell’intero processo?

Non sto dicendo assolutamente che non si debba passare alle fonti rinnovabili, anzi. Sto però dicendo che prima di premere sull’acceleratore forse sarebbe il caso di sapere cosa ci aspetta dietro la prossima curva, perché il rischio di trovarsi un muro o un burrone è tutt’altro che trascurabile.

Prima di parlare di sostenibilità e di transizione ecologica allora forse bisognerebbe fermarsi un minuto a riflettere e provare a rispondere ad una domanda “ma l’azione che sto per intraprendere, su scala globale e a lungo termine, lo è davvero?

Just my two cents, Matteo Introzzi